Ricordi di una telegrafista – 1

Carissime colleghe,

Permettetemi di dedicarvi questa povera pietruzza… che io ho intitolato «lapillo» sembrandomi realmente un piccolo frammento vulcanico di sentimenti!!

Ebbi questi ricordi coll’ingiunzione di distruggerli, ma poiché a me furono di salvaguardia e di sprone al bene — giacché solo in questo è pace — ho disubbidito alla morente, che volle affidarmeli come prova d’affettuosa stima! Oggi io ve li presento, sperando non vi sia discaro conoscere questa semplice ed intricata psiche femminile, che vincendo il proprio impeto, seppe poi col sacrificio di sé scontare le proprie aberrazioni.

La storia è vecchia di data.., ma può essere sempre giovane!…

La pietruzza vada al suo destino!

Comprendetemi, e gradite il mio pensiero.

 

NYTA JA S MAR

Ausiliaria telegrafica

 

1903

Dopo una giornata di estenuante e genial lavoro, tra una comunità altrettanto estenuante e geniale…, con le nostre autorità telegrafiche estenuanti e senza… genialità, ritrovarmi sola sola nel mio pied-à-terre, piccolo come uno scrigno, gaio, mignon, è un piacere vivificante! Mi dona una dolcezza squisita!

Stassera ho febbre di stanchezza. Mi gravita tra le spalle un blocco di piombo. Nella mia carne sento una fiammella, che guizza rapida, e fonde ove passa… frugando ogni meandro — poi sale alla superficie e come nimbo di fuoco m’avviluppa e stringe.

L’azzurro delle mie pupille è circondato da un filo di sangue, a guisa di anello di corallo; e quel rosso, che s’irradia sul turchino forma una strana tonalità di colori.

I miei occhioni di cielo sereno, di miosotis, di lazulite, di fioraliso… (dicono gli uomini) chi più ne ha, più ne mette… stassera hanno bagliori misteriosi e felini…, bagliori indefinibili! …

Il mio specchio, immobile nel suo plinto ornato d’edere e rose, mi dice ripetutamente che il mio viso di bianca camelia, di tuberosa, è più candido del consueto.

Senza carne, senza sangue, senza vita…! Pare blandito da un raggio sidereo, dal chiaro di luna. Quale statua d’alabastro potrei ornare un sepolcro, se l’oro dei miei capelli non sprizzasse scintille e la mia bocca non avesse polpa di fragoletta matura.

Sono una bambola di Norimberga, antipatica, dal viso di maiolica; sarei a posto sopra un piedestallo di colonna greca in un angolo di salotto e… sono un’oca!! (dicono le donne) chi più ne ha, più ne metta…

Ed io rido…

Dalla finestra spalancata, da vera innamorata del cielo, ne guardo estatica un grandissimo triangolo ove cala il sole, inabissandosi tra il verde frastaglio della montagna. Il mio pensiero, colà avvinto, mi dona l’oblio ed il sogno.

Il mio sangue si quieta; mi sfebbro… ritorno impetuosa e gagliarda. Sorrido all’orizzonte che pare di pirosseni-co, piropo, granata… e vorrei… slanciarmi… e colle mani afferrare le nuvolette vaganti come  piùme rosate, come lembi di veli fluenti, che poi si cangiano in lamine di madreperla e cromio.

Ecco la prima stella: piccina, vezzosa, scintillante.., piena di fascino… Essa mi fa pensare ad un ricco solitaire nel lobo roseo d’un’orecchiuzza gentile: e guardo avidamente, lassù, se si delineasse un vago profilo femminile tra i lembi di luce dorata, le pennellate di rame fiammante e le ultime nuvolette di perla d’oriente!

La stellina… scintilla! Ed io la chiamo fiore del cielo — precoce fiore della notte —; poi guardo i primi fiori del frutteto, — nei mandorli e nei meli — dell’orto.., e provo tanta tenerezza! — Posati sulle mie labbra stellina vezzosa… posatevi sulle mie labbra, o fiori di mandorlo e di melo! — Piego riverso il mio capo, e dalla mia gola esce un lieve gemito… L’anima ha un anelito… e la pupilla una lagrima…!

Quanto m’è cara quest’ora! Quante sensazioni mi dona! Tante quante le luci diverse che ci manda il sole prima di lasciarci all’oscurità della notte, che è cos í ricca d’altre bellezze e d’altri fascini…

Sui tetti vicini fugge il bel pavone di Villa Ortensia. Egli grida di gioia e di paura, e ciò mi esilara. — Batto le mani: — Ma su, via — corri — scappa colle povere zampette e le belle  piùme dagli occhi variopinti di zaffiro, sfumature di bronzo e di turchese! — Corri, vola alla foresta, nelle Indie — tra gli uccelli dalle lunghe code ingemmate, va e fuggi l’uomo — va senza pastoie!

Anch’io ho infranto le pastoie; ho spezzato la dorata catenella… Vivrò del mio lavoro. Oh la gioia d’esser liberi dopo otto anni di schiavitù, di catena al cervello, non che al piede…! Volar libera come la capinera nei boschi, sco-razzare senza inciampi come il capriolo tra le palme ed il croco… Andarmene, muovermi, fare e disfare come io voglio, pare e piace… Non più l’eterno padre D’Orelles alle costole, né le Miss inglesi allampanate, né la severa mia Contessa piena di geremiadi e gonfia di pregiudizi, non più vecchiume intorno, non più marmotte aristocratiche, né etichetta, né maggiordomi, cameriere, cuochi, sottocuochi, sguatteri, grooms… Né pranzi solenni e lieti come i funerali… non più guinzaglio.., c’è motivo di gridare di gioia come il pavone fuggitivo!

Ho vinto la resistenza del mio tutore Padre D’Orelles, quella della mia madrina Contessa di Brighten… se non cedevano finivo fisica! Non voglio essere una parassita e tanto meno una schiava. — La lotta è stata accanita ed eccomi umile lavoratrice tra l’elettrico… Cammino da sola! Batto l’ali festevoli, perché evasa dalla gabbia dorata! …

Ho levato le forcine di tartaruga bionda ed ho liberato il mio capo dal peso delle mie treccione, che si srotolano in movimenti di serpi e si distendono lungo il mio dorso, toccandomi le caviglie con le loro estremità dorate. Poi disfo le treccie ed eccomi avvolta in un manto morbido e profumato, pieno di bagliori sotto la luce della mia lampada priva d’abat-jour. La vestaglia bianca, sciolta, fluente, mi lascia nudo il collo ed il principio del seno, sul quale tremula la mia crocetta brillantata, ricca ed antica — ultimo ricordo dello zio Germano; alla cintura sono stretta da un ricco cordone d’acciaio opaco che termina a sinistra con lunghi nodi e fiocchetti di cannutiglia. I miei piedi nudi hanno un rubino incastonato in un anello d’argento, infilato in ogni pollice. Anelli strani come due amuleti che io porto ai piedi perché larghi nelle dita della mano; e sono anch’essi cara memoria della mia famiglia. Non li abbandono mai… Sono come carne della mia carne. Calzo le pantofolette fatte di vellutini intrecciati a mandorle vuote. Così si vede l’epidermide candida. I due rubini piccoli, ma vividissimi, sembrano misteriosa escrescenza… che attira, avvince, lega… sospinge il pensiero verso il fantastico.  piùttosto che piedi, sembrano  due bomboniere  piene di candidi confetti. Vi ho messo a… morire alcune viole… povere care! Già reclinano i piccoli petali in un abbandono di voluttuosa morte!… Stassera ho l’aspetto proteiforme. Figura di Santa o di Etèra? Soave o libertina? Casta o procace? – Ciò dipende da una mossa, da una linea, da un’occhiata, dalla curva delle labbra, dall’impercettibile … da un sorriso… per parere… angelo o demonio! Se mi vedesse il Padre D’Orelles o la Contessa… si farebbero il segno della Santa Croce! Se mi vedesse Roberto… avrebbe altre intenzioni, sono sicura! – Oh il  ritorno di Roberto deve aver influito sulla bilancia in mio favore per tron­ care… cioè per lasciarmi partire dal Palazzo!

Come sono furbi i genitori nel salvaguardare dagli eventuali pericoli i loro figliuoli, bei givani di ventidue anni! – E qui; sola e libera nel mio grazioso pied-à-terre, non più infagottata da collegiale, circondata dall’aureola del lavoro e del sacrificio, io credo signora contessa… d’essere un nemico assai più temibile… che in casa vostra!!… Cosi pare  alla  mia  piccola  intelligenza. Comunque io benedico alla vostra… ingenuità… materna, se a quella io debbo la mia libertà, la mia individualità ricuperata…

Ho calato le tendine di guipure, perché desidero che nessuno dei vicini possa vedermi. Preparo la mensa sopra il mio scrittoio per essere accanto alle piante, sorrette dal gran cippo di madrepora: il mio piccolo giardino è quel­ lo. Seguo con tenerezza ogni fogliolina al suo sviluppo, ogni piccolo bocciuolo al suo schiudersi.

Guardo stupita, meravigliata, dolcemente attonita… secondo il fiore che nasce! Le fucsie invece, mi fanno rabbrividire… Sembra che abbiano le vene, col sangue, come noi… e come in certe favole debba uscirne una fata… un folletto… uno gnomo!…

Nell’anfora pompeiana, un mazzo di mughetti, venuti dalla riviera ligure, colle violette… è una nota veramente fine e gentile, accanto all’Ebe negra che mi sorregge la frutta fresca, mostrandomi le sue linee perfette, nel bronzo scolpite…

I  miei compagni di mensa sono:  un teschietto  d’avorio, uno scarabeo egiziano, un ragno fìlogranato che vivo­ no entro una coppa da Champagne… Una bibbia riccamente legata in cuoio…

Il mio pranzo è più lungo di un pranzo diplomatico – perché sovente lo dimentico, presa da altro pensiero mi perdo, mi perdo a fantasticare; o sonnecchio… sin che mi sveglia l’assiolo dell’orto o l’asino dell’ortolano. Con­ servo l’abitudine di coricarmi tardi; cosi era in casa mia; cosi al palazzo Brighten, cosi nel mio scrigno. L’abat-jour cilestrino della mia lampada conduce al sogno…Poi sfoglio i giornali, pizzico la mia arpa, scrivo i miei ricordi o dipingo conchiglie. Quando ero bambina tante ne portava lo zio Germano dai suoi viaggi, tante ne imbrattavo di colori. Adesso voglio farmi un bizzarro salottino di conchiglie, tutto di conchiglie dipinte e mi porrò là dentro bella e candida. Io  sarò la perla!… e Roberto    spero che Roberto verrà a raccogliermi!  Con Roberto sarò sinceramente  come sono; non più ipocrite modestie da collegiale. Egli mi vedrà strana e multiforme, perfida e buona, dolce ed amara cosi –  secondo la vena. Non più il peso della simulazione! Il mio cuore batte libero, lieto e svelto. Di Roberto farò lo scopo della mia vita? Mah! di idee balzane, di calcoli intricati, il mio cervello è fabbrica inesauribile! Ormai mi sgroviglio, mi sgroppo, riacquisto tutta la mia individualità ed il mio spirito si eleva fino alle stelle, o si sprofonda sino agli abissi… privo di freni e di inciampi!

Col mio pensiero afferro il possibile ed anche l’ impossibile, talvolta dal corpo stralcio tutta la materia e volo e volo là, tra le iridiscenze di madreperla del grand’angolo azzurro nel tramonto; oppure reclino il capo vinta da tumulti

del sangue, che mi sferza impetuoso entro le arterie. Ed allora agonizzo per la bramosia di baci, d’amplessi veementi, in una fame di carezze, in una fame d’affetti, in un spasimo, in un delirio che ora almeno lascio erompere sfogandomi in pianti convulsi e grida! Scricchiolo le ossa nelle mie mani come una furia che rompe spezza e frantuma! Allora il mio specchio mi vede anelante ed il Grifo oscuro Jnssu sogghigna; le mie ciglia tremano come petali agitati… un fluido strano tutta mi investe, nel dorso sento fredde lame d’acciaio, alla gola mi salgono singhiozzi disperati…  Allora  vorrei gettarmi  nell’ingranaggio spaventevole l’una macchina e sentirmi maciullare, fracassare, ridurre poltiglia…

– Stritola, stritola, schiantami,  schiantami che  tutta la mia vitalità potente risorge, resiste, non cede ancora! E bacio l’aria, il sole, le stelle, le mie braccia odoranti… La mia bocca avida si  posa ovunque… Mi dibatto da otto anni in questa fame d’amore, cioè dopo la morte dei miei genitori. Da quel tempo non ebbi più che qualche bacio, gelido e periodico dalla contessa mia madrina. E nulla, null’altro! Io che baciavo giorno e notte mio babbo e mia mamma nella mia cara villetta coperta di kudsu del Giappone, ove correvo, scorrazzavo come un puledro indomito… chiudermi poi nel tetro limitrofo Castello! Poscia nel palazzo di città, nero anche al di fuori con inferriate a guisa di prigione… Se sono affamata d’amore ne ho ben donde! La mia villetta perduta, cangiata in  oratorio  dalla nuova proprietaria, la Contessa… come ti  rimpiango! Ecco che lagrime dolci e tristi cadono dai miei occhioni… Il teschietto d’avorio mi rammenta papà al suo, studiolo d’avvocato – lo  scarabeo egiziano la mia bella mamma che lo puntava sempre sulle trine nere del vestito, ed il ragno filogranato… il mio piccolo cavaliere e compagno d’adolescenza –  Roberto di Brighten. Il Conte, la Contessa, babbo e mamma si dedicavano allo spiritismo  in  un  salone che metteva i brividi! Aveva un alto basamento di ebano, finestroni di vetro rosso sangue, un complesso che noi piccoli, sgomentava! – Quando c’era lo zio Germano noi ci  divertivamo con quello. – Roberto si metteva serio. Ed io con le mie conchiglie inseparabili  mi divertivo. –  Se però lo zio voltava le spalle, Roberto me le  buttava  nello stagno e rideva dicendomi:

– Guarda, Marina, guarda come filano! Ritornano al mare sai; pensa alla rabbia di quelle non dipinte!

Tornava lo zio, nero, bruciato dal sole e Roberto aveva soggezione e parlava come un uomo. Io chiedevo allo zio:

– Zio avete veduto il   Jorullo in eruzione?

– Che domanda?! Certo, l’ho veduto, ma tu che ne sai?

– Mi porterete dei grumi di quella lava! Ed all’isola di Kennedy siete stato? Sono sempre feroci gli uomini

colà!?

Lo zio rideva, mostrando i suoi dentoni larghi e gialli.

Aveva l’abitudine di stuzzicare con uno stelo le lanterna­ rie, che fuggivano sgomentate tra le fragarie selvatiche.

Roberto invece rapiva i lampiridi, li nascondeva ed al momento opportuno me li buttava all’improvviso sul mio collo nudo. Allora erano grida da parte mia, risate dall’altra!

I bei grappoli di kudsu della villetta, i folti kakis e tan to tanto verde all’intorno, formavano delizioso quadret­ to, rispecchiato nel verde stagno…

Avevo  delle  jantine  conservate  nell’alcool. Parevano

tante fragole allungate e lo zio ci spiegava come un precettore:

– Quando sono in mare dal loro corpo esce un umore rossiccio col quale intorpidano l’acqua per insidiare la preda…

Roberto vi si divertiva ed io chiedevo:

– È vero poi, zio selvatico, è vero ciò che dite?

– Pettegola!

– Zio nero nero come il carbonaro!

– Ti taglierò il naso e lo porterò alle ..

– Pigliami, pigliami allora! – E correvo tra i cespuglio- ni, ove lo zio non poteva

Lo canzonavo perché non sapeva ben camminare in terra, abituato a camminare sulle navi:

– Vai di sghimbescio, sembri la mia anitra grossa! – gli dicevo.

Egli rideva sino alle lagrime; poi mi baciava e stringeva al suo forte petto.

Per accontentare Roberto, parlava di viaggi, di tempeste, di costumi esotici.

Roberto si accendeva e dichiarava:

– Diventerò anch’io soldato della Regia Marina, capitano: anch’io andrò sugli infiniti

Ed io lo beffeggiavo, dicendogli:

-Tu, Roberto, andrai soldato papalino, il tuo oceano sarà il mio stagno, le isole di Kennedy saranno le nostre ghiacciaie, ed i selvaggi tutti gli ilobi ed i moscardini, che tu schiacci tanto volentieri!!

– Ecco! vedine uno, esce dalla tana…

Roberto si offendeva del mio dileggio, s’imbronciava e piantava la compagnia gridandomi:

– Lingua viperina, vedrai che andrò, andrò e ti porterò il pappagallo! – (questo era il mio sogno, il mio desiderio intenso).

Io continuavo nella beffa… con cantilena ripetendo un ritornello:

e me ne andrò, e me ne andrè… alla fiera di Santo Andrèèèèè!!…

Allora Roberto fuggiva, gridandomi più rabbiosamente:

– Vipera, vipera, viperetta, viperaccia, viperone! roooneee!!

Ed io, finché lo  vedevo, continuavo:

A Sant’Andrè! a Sant’Andrè!… alla fiera di Santo Andree!!!

Quando le hidrangee erano fiorite, ricche di roseo e di cilestrino, ci radunavamo là a prendere il caffè in ghiaccio. Il Conte Federico, la Contessa, mio zio Germano, mamma, giuocavano agli scacchi, o s’appassionavano agli studi di teosofia.

Il Conte era teosofista convinto, e sperava di convertire tutti alla sua fede. Allora Roberto ed io facevamo strage nel piccolo frutteto.

Poi, il mio povero zio nero mori vittima del suo eroismo, in una collisione presso le isole di Sunda! Qualche

mese  dopo  Roberto  entrò  all’Accademia  navale  di  Al1’addio mi disse:

– Tieni, giacché hai paura dei ragni, tieni questo per mio ricordo; hai paura anche di questo? Hai perso la lingua? Non mi dici niente – oh! parlo a te, Marinetta!

Io continuavo a tacere:

– Allora un bacio: due baci, tre baci dammi dei baci…

Ed io dibattermi, furiosa irritata di quella partenza.

Due anni dopo mio padre ed il Conte Federico,

– Avevo dodici anni, eppure sentii il dolore più intenso. Rimasi più giorni in uno stato catalettico –   poi anche i grandi dolori cambiano forma, si ritirano lentamente come le acque del fiume dopo la piena.

La Contessa si converti subito al cattolicismo. Lo aveva abiurato al tempo delle sue nozze col Conte –  si riaccese sino all’esagerazione – e quando mori mia mamma e per liquidare i passivi si rese necessaria la vendita, ella acquistò la nostra villetta e ne fece l’oratorio del castello. Si circondò più che mai di gente tetra e di asceti. Ah la mia villetta, il mio grazioso nido di verde e di uccelli, ove era vissuta felice, quando gli strapparono i bei grappoli di kudsu e martellarono e sfasciarono ed abbatterono per far l’oratorio del Castello la mia piccola anima urlò contorta!…

Da quel giorno non amai più la Contessa ed il mio soggiorno al Castello mi divenne atroce!… Come uscirne… come… come?… Mi rodevo in questo desiderio acuto il ritorno al palazzo di città  fu  ancora  più  tetro,  ancora più     odioso! E  poi e  poi le Miss inglesi stucchevoli, l’e­terno  Padre D’Orelles  al fianco e  gli amici  di famiglia…

Una collezione da museo archeologico! Fra questi figura un Conte Firmino, Conte del papa, una vera marionetta sgretolata! Settanta primavere; eppure mi faceva la ruota come un tacchino e la Contessa lo incoraggiava! ah! che nausea! signor Conte e signora Contessa! Giammai, giammai e giammai!

O specchio mio, ed ora? Che faremo? Dovrò invecchia­re col naso sui telegrammi, in un ambiente pieno di mise­ ria, di ingiustizie e di soprusi? Ove per giunta mi si ritiene un’oca. – «Omberecais» dice Ida Velaro, nel suo gergo che ho presto indovinato. Tra le invidiuzzc, le velleità dei superiori, dove anche l’aria è un po’ satura d’acredine… il tutto per lire 2,50 giornaliere (lorde). Girare alla sera alle 22 per ritornare a casa e pigliarsi le sdolcinature degli sfaccendati. Cosi al mattino presto, o piova, o nevichi, o grandini, bisogna andare, bisogna andare!

Io spero di cambiare rapidamente situazione – non so come – ma certo considero il mio stato attuale come prima tappa…! Come transitorio…

Il nitore delle mie pupille s’affonda in un trofeo d’armi, di cangiati, faretre, fiocine, tutte armi esotiche, poi nel ritratto dello zio Germano; come a chiedergli consiglio…

I miei pensieri turbinano intorno oscuri e lievi come la favalena.

Il ragno di Roberto mi guarda… oh mi aggrappa qua! a quelle zampine scintillanti… Da qual popolo d’Oriente di­ scendi, quale arabo o cinese ti esegui in modo cosi ammirabile? Oh vorrei pure recarmi tra gli arabi a sognare, narrare romanzi e lavorare l’argento… Ragno, bel ragno d’argento portami, portami la fortuna!

Ed ora Roberto ritorna tenente di vascello, bello cd elegante, ricco e colto… troverà me la damina di neve… ridotta in telegrafista!  Ciò mi umilia. Mi sento un  impeto di battaglia! Le mie narici fremono come rosei lepidotteri… O specchio mio, davvero Roberto è  tutto ccl io nulla, o viceversa io… sono tutto ed egli è nulla?! – La mia bocca di fragola, si apre ad uno strano sorriso – scoprendo i dentini che… afferrano il possibile ed anche l’ impossibile…

Cosi rievoco, aspiro e respiro, il presente cd il passato e l’avvenire!

La mia camera per dormire non è meno bella e gaia del mio salottino. Pochi mobili ma intonati. Il letto d’ottone a colonnette lucenti con coltrinaggi «bleu électrique» è veramente simpatico e gentile. Ho pochi mobili perché omo lo spazio; la mia arpa dorata è in un angolo col piccolo puil di raso cilestre ed il guipure écru. In alto, nella pare­ te, sorridono i ritratti di babbo e mamma.

Ho rotto il grave silenzio del caseggiato, che pare un convento. Non si udiva mai una voce, mai un rumore, non uno schiamazzo! Pareva abitato da spettri, o da gente che tien l’ovatta nelle suole delle scarpe; ed io quando mi piglia l’estro, ne faccio d’ogni colore! Fischio, canto, declamo, trascino i mobili in una ridda infernale, compensandomi dell’antica oppressione. Do sfogo alla mia vivacità, che straripa e dilaga. Io trillo, fischio, come e meglio dell’usignuolo: mi sono già battezzata per «usignuolo del convento». E gli altri che passano come  ombre  taciturne, mi fanno ridere. Tanto meglio! Ci equilibriamo e guai se mi imitassero! parrebbe il finimondo! Ogni sera immancabilmente, prima di coricarmi, apro la finestra e guardo la notte, poi il cuore mi batte più celere, vorrei che qualcuno mi afferrasse, buttasse a terra come fanno i cani, ruzzare sul pavimento mordendo e giuocando, lottando fino a sentirmi stanca e vinta…

Ho delle ciliegie nell’alcool sul mio tavolinetto, le mangio come una bimba ghiotta: già coricata, con un piede scoperto, penzolante e biricchino. Poi brucio papier d’Armenia e seguo le spire odorose cogli occhi dilatati. Quan­ do non trovo il sonno e smanio bevo fernet, tanto fernet. E passo la notte senza dormire; poi canta il gallo, suonano le campane delle chiese… Bisogna alzarsi e preparare il caffè, la colazione da portarmi in ufficio, e fare la mia toilette minuziosa… per abitudine antica, di quando non sapevo come smaltire il tempo.

Oggi, dopo l’ufficio, debbo recarmi al palazzo Brighten; dunque bisogna vestirsi per l’occasione. Un lusso sobrio e decoroso. Abitino di seta grigia con collare di  merletto, un carneo alla punta dello scollo. Gran cappello panama, scarpe e guanti immacolati… occhi più scuri, perché sovraccarichi di elettricità, bocca sovraccarica di monelleria…! Per quanto sia sciolto il guinzaglio, un anello sottile ci congiunge ancora… A quando a quando c’è un invito a pranzo, un lavoretto da eseguire, un fastidio qualunque, una seduta di spiritismo (segreta debolezza della Contessa), ogni tanto insomma ritorno nel mio reclusorio, che visto cosi a sbalzi, ha il suo lato piacevole! 

Al palazzo Brighten soirée movimentata per la presenza del Padre D’Orelles: la sola figura veramente interessante, e poi… dulcis in… Cominciamo dall’amaro! Grandi prediche, ammonimenti, interrogatorio; la lettura spirituale… il pranzo di famiglia con gli habitués. Vale a dire le Miss allampanate, secche come le pere al sole, il dottor De Franceschi, l’avvocato De Fanti, ed il mio pretendente palatino Conte Firmino, nonché«13 capelli».-Tutta gente noiosa. Il dottore troppo ossequioso e parlapiano, l’avvocato troppo losco, e poi ha preso il posto di papà; con le inglesi non si può discorrere perché dicono sempre di si; il Conte Palatino disfaldato dal tempo, mi guasta l’appetito. Io guardo sempre il Padre D’Orelles. Alto, asciutto, rigido come una leva d’acciaio, e due occhi, due occhi senza gli eguali.

Ti vanno dentro al cervello, dentro al cuore, ti analizza­ no ogni pensiero più recondito! A me piace. Mi sento at­ tratta malgrado gli orrori di cui s’incolpano i gesuiti. Ne ho letto in biblioteca, di storie raccapriccianti! ed egli è il Padre Superiore dei Padri suddetti!! Uh!… Dirò che io lo guardo con lo scopo di vederlo confuso, di suscitargli al­ meno un briciolo di emozione come accade agli altri uomini… Tempo perso! Ha dunque disseccato il sentimento, come ha disseccata la sua carne?

Anch’egli per me simpatizza, lo so; ma non è questo che io vorrei! Ci studiamo a vicenda, a quanto pare, e da parecchi anni, senza riuscire a conoscerci scambievolmente! Forse gli riesco gradita, perché simulo la più grande attenzione alle sue filippiche, facendo una mimica da perfetta commediante ai punti più salienti. Ed egli è soddisfatto – ed io pure – perché, dopo, quando sono a casa mia, lo imito alla perfezione, nei gesti, nell’espressione, nella vo­ ce nasale. In punta di piedi, e mi diverto un mondo, e salto; e spizzico i fiori; e trillo gaia ed argentina!

Non più voce melliflua e sommessa di piccola ipocrita! Noi qui in casa, siamo noi; là con quella gente, bisogna es­ sere ciò che occorre. Cosi ci hanno insegnato.

La Contessa mi ha dato una tovaglia d’altare da accomodare ed  anche  una  berretta  da ricamare. Ha  forse un

«13 capelli» anche per lei, al quale vuol fare un dono acconcio e gentile?! Ho veduto sei magnifiche poltrone di cuoio antico: un lavoro pregevole, vale a dire tanti biglietti da mille – vendute dal Padre D’Orelles – alla signora Contessa. Vengono dalla Spagna: È dunque ricco il Padre D’Orelles? Io me lo figuravo povero come il Cristo, dor­mir su un misero giaciglio, tra quattro pareti piene di teschi e croci   Quelle poltrone cosi ricche sconcertano le mie opinioni. E perché le ha vendute? Stassera abbiamo parlato della pena eterna!! Discusso se si poteva pregare pei dannati.  Oh quanto era irritato delle mie obbiezioni!

Si dominava, è vero; ma aveva il tic nervoso all’angolo delle labbra, segno di.    burrasca!  Le  Miss propendevano in mio favore: «Si può pregare».

– Ma vista la cattiva pie­ ga hanno cambiato tattica. L’avvocato si è difeso con dei «Ma» e dei «Se» di cui nessuno ha capito niente, il dottore parla piano non si è potuto sentire, in quanto al mio pretendente è stato perfettissimo cavaliere sostenendomi a tutto fiato! Il quadretto era gustoso, ma minacciava convertirsi in indigestione, quando è giunto in tavola il gelato. L’arrivo del gelato calma i bollori! Ed il Padre D’Orelles si accinge a demolire la piccola rocca squisita con lo stesso impegno con cui voleva demolire il nostro pensiero. Poi passaggio nel salottino giallo.

– Allora io riacquisto una certa libertà d’azione. E me ne vado a discorrere col personale di servizio, gente più disinvolta con la quale si può fare una risata clamorosa e star seduti con le gambe incrociate. Sono passata per le scale di servizio, ho riveduto le mie camere d’un tempo e mi sono intenerita. Tutto è a posto. Ciò è gentile.

Sino il mio cestino da lavoro coi gomitoli di, seta, il «necessaire» per cucire e ricamare, e la poltrona solenne ove ogni sera mi fermavo prima di coricarmi; allora  vestivo un lungo camice bianco, leggevo l’Imitazione di Cristo, a piedi nudi, coi capelli sciolti come un angioletto… e tanti ricordi! Le lezioni di inglese nell’attiguo gabinetto e quel­ le di musica, e l’arpa…

Sono passata in biblioteca anzitutto per rivedere il ritratto del povero Conte Federico. Innanzi alla sua bella, maestosa, nobile immagine io sosto sempre coll’animo nello sguardo – rievocando anche il mio papà… e guardo in Alto – quasi potessi squarciare la misteriosa  barriera che ci separa, ed afferrare e tenere a me l’essenza che sopravvive alla nostra materia…

Volevo  continuare  le  mie  ricerche sull’enigma dell’apocalisse – ho trovato solo un errore di stampa nel testo greco – cap. VIII – qui consiste la sapienza – chi ha intellienza calcoli il numero della Bestia (Anticristo) atteso che è un numero d’uomo ed il suo numero è seicento-sessanta-sei. -Ma il lauto pranzo, i vini ed i rosolii mi hanno condotta ad un sonno saporito, sul vecchio seggiolone a bracciuoli.

Per quanto tempo, non so!… Ah! Mi sveglio all’improvviso, perché qualcuno mi scuote, m’abbraccia, stringe, solleva come un fuscello… mormorandomi:

Marina, Marina! Son io, Roberto; non spaventarti, mia cara, mia cara; sono Roberto!

– Roberto?! Ma che!

– Ma sì, ma sì, non mi conosci, guardami! Come sei bella in questa penombra…

Ho rialzata la luce – era ben lui – Roberto – alto, bronzeo, dai denti candidi ed i capelli riccioluti fini e lanosi co­ me quelli dei mori… Egli è stato tenero ed ardito… io solamente attonita…

– Vengo da te domani. So tutto, dove stai: sono già al corrente, vengo, a che ora? Marina!

– Mi attendono venerdì prossimo per il mio onomastico, ma ho anticipato per un mio capriccio – sapevo che eri a palazzo – ed ero certo che venivi qui e poi, vedi anch’io ho bisogno di un libro… oh cara Marina mia…

Mentre parla mi dà baci ovunque – ed io lascio fare – passiva come un bimbo annoiato. Ed egli con slancio continua a spiegazzarmi…

Io continuo a guardarlo con meraviglia – egli comincia ad inquietarsi:

– Mi accogli cosi? Ciò è ben triste, ed abbassa il capo riccioluto con espressione mesta.

– E che libro prendi? Roberto? – chiedo io.

– Prose e liriche a san Francesco d’Assise.

Su la sacra verna

– Ah! prendi questi libri Roberto! Ciò mi è dolcemente gradito… Un’improvvisa tenerezza mi assale, afferro la testa di Roberto, gli scompongo i capelli di moro con le mie dita tremanti ed affettuose come una carezza ma­ terna.

-Ti trovo, Marina? – mi chiede… guardandomi intensamente.

-Sì… Rob…

-Ah cara!…

Laudato sii, mio Signore, per quella silenziosa, pudica, a me sorella… che m’iradia il sentier qual fiamma viva…

– Vedi quella foglia secca? L’ho messa io, Roberto; proprio pensandoti come una sorella, e leggi più avanti:

Chieggo carità di pie parole
Amor chieggo ed oblio, arpa e viole…

– Vedi? c’è la nostra vita. Roberto! ti pare? Ciò è bel­lo… è bello! – Entrambi abbiamo gli occhi umidi. Ci stringiamo con effusione, i nostri baci sono proprio arpe e viole…

Domani vengo? – mi chiede Roberto con ansietà… Vienie quel libro per… chi è?

Mi è sembrato un po’ confuso mentre mi rispondeva. Ed ora ti fai vedere?

– No, vado al Club.

– Ah!. Giuochi?!

– Sì, giuoco, e perderò… ma sono tanto felice!…

Poi altri baci e si è dileguato come un fantasma…

Ecco il mio secondo piccolo trionfo I miei occhi sorridono più delle mie labbra!

O mie belle rose, miei pallidi mughetti, il vostro squisito  profumo s’avvince al profumo della mia anima   provo

una sottile ebrezza…    Mi sdraio sulla chaise-longue, sciolgo tutti i capelli e li profumo del mio strano profumo di robinia e fieno, poi li lascio tutti sciolti sulla pelle d’orso bianco… Il mio capo rovesciato… le labbra semiaperte…

gli occhi velati di suprema dolcezza    Domani debbo esse re  bellissima, riposata, fresca, e col cervello limpido!.   Il mio specchio col grifo oscuro in alto, col zoccolo plastico d’edere e rose in basso, mi guarda cupido  e di me si compiace…  son pur belle le mie braccia, il mio collo…  la mia camicia tutta merletti e batista è assai più bella del mio vestito …ah se mi vedessero in questo abbigliamento!. mi metto al collo un lungo filo di coralli rosei che mi giunge al ginocchio…  i capelli li divido in quattro treccione, in fondo  vi annodo un nastro dal quale sfuggono i riccioli belli… Ah che bella bambola di Norimberga!!… O sono Margherita…  Margherita  del   Faust?!…  Io  canto  «l’aria dei gioielli» accompagnandomi colla mia arpa dorata…

Stanotte  sognerò che alla finestra  vedo Faust  cioè Roberto fra i raggi di luna e mi dice t’amo…

Lo spogliatoio del mio ufficio continua a farmi un effetto teatrale (dietro le quinte) tutte quelle braccia e spalle che si scoprono le ciprie, i profumi, le catenelle, le perline quel movimento d’abiti e di vestaglie. Offre un campo, all’osservatore… C’è chi s’indugia, chi s’affretta, chi… se ne infischia. Chi s’indugia appartiene  al corpo battagliero… e combatte con la… femminilità o con l’astuzia, con l’ardimento, colla doppiezza. Sono belloccie  il resto viene da sé! Chi s’affretta, ha l’ossario spolpato da coprire od ha rinunciato ad una palestra, sia per indole o per necessità. Chi se ne infischia pensa solo al ventisette (nota 1) e so­no le veterane, quasi tutte le veterane, alle quali la giovinezza sfiori innanzi tempo; vittime del lavoro, sono le oscure eroine…

Hanno i capelli bianchi e mi fa pena vederle ancora curve sugli apparati.

Le battagliere si agitano, fermentano come l’uva nel tino. Oggi ho vicino una piccola battagliera, un po’ maligna, Rita Pollini. Sento come un ronzio continuo di calabrone intorno ai fiori. Non tace un secondo! Quel suo corpicciuolo pare un fusto d’avellano: più foglie e più fronde che tronco. Ella non si confonde nel frastuono del lavo­ ro; abbiamo vicino due Hughes attive che sembrano due gramole quando schiantano e frantumano la canapa, poi il martellio dei tasti Morse e delle ancorette. È un baccano indiavolato d’un popolo misterioso che si nasconde nelle viscere degli apparati. Io sono esilarata per un referto di Follini, che mi colpisce barbaramente! Le domando che si dice di lei, dopo aver saputo ciò che si dice di me.

La piccola sorride sarcastica e risponde:

– Di me? (piccolo imbarazzo): Credo dicano niente

(con sfumature d’amarezza) non mi vedono neppure!!

I suoi occhietti tondi hanno un piccolo baleno e tace per due minuti. Poi tornando alla carica:

– Sai, De Marinis, l’Oretta Savelli l’hanno colta nelle sale delle pile con Ezio Dossi mentre si baciavano; li ha sorpresi il Direttore tecnico! (e si ride secco secco).

La vocina è tagliente, sottile, come una falce.

– Che le faranno, Pollini? – chiedo io.

– Oh! niente, è in grazia… .. perciò…    niente paura! Ed hai veduto il braccialetto che Dossi regalerà a sua  moglie?!  Un  vero gioiello,  per  chiuderle gli occhi e stia cheta! Ma era più adatto un diadema a mezzaluna (ride ancora).

Egli è figlio di uno strozzino, non ha miseria!

(La piccola, morde): – Oh! io non ho visto niente! le risponde, un po’ tediata.

Guarda, Ida Vellaro, con la Zerbini, tubano le due tortorelle! L’Ida si fa chiamare Aida e l’altra si crede una dea. Di dietro può andare, ma davanti vedi che bocca da pescecane! -E continua, continua cosi a sbalzi mordendo e graffiando: o granellino di pepe e seme di linicola, mi fai ridere mio malgrado!

La piccola gattina continua a graffiare!

– Ecco il gallo della Checca: De Lellis! Il vero sovrano qua dentro, a lui tutto s’inchina. Perché fa l’orario! Guarda come se la intende con Cellina Crolli, sotto il naso del marito, cieco e sordo, poveretto!

Il gallo s’avanza canticchiando: «Apri la tua finestra, o vago fiore!»

Pollini mi urta il gomito e mi spiega!

– Il vago fiore è lei! Un fiore con gli occhiali, e quaranta primavere! a V… dicono che avesse tre amanti!

– Nientemeno!

Il vago fiore è una bella bionda cinerina, col nasino «retroussé», un neo alla guancia e tutta una bella polpa di carne rosea. Con abilità di borsaiuoli i due si scambiano bigliettini, tra i poveri telegrammi galeotti.

Follini continua i suoi commenti… acri come la trementina.

Cosi, stanca del suo cicaleggio le dico bruscamente:

-… di te si dirà nulla, in compenso tu dici di tutti! È la tua rivincita?!

Ella impallidendo mi risponde in tono sprezzante:

– Sei proprio «omberecais» (oca). Per quanto si dica non si rimane pari!

Tu sola ignori ciò che si fa qua dentro!

Io sono nervosissima – oggi farò qualche pasticcio…

Stasera il mio salottino è ancor più gaio e seducente del consueto. La mia camera da letto poi sorridente, poetica, tutto lindo fresco, profumato. Nell’anticamera, tutta roba giapponese, oggi ho aggiunto il cippo di madrepora con l’heuchera per muoverci meglio in salottino.

Ho fatto dei dolci alla vaniglia, anch’io la rocca di gelato e frutta sciroppata. Poi caffè, biscotti, bottiglie di vecchio vino bianco. Un bel trionfo di frutta fresche, e bom­bons – tutto ciò che piace a Roberto. Non mi va di pranzare, e mi pongo allo specchio. Non già perché mi occorra molto tempo a vestirmi, no: mi fermo a studiare espres­ sioni e mi sorrido. Mi vesto tutta di bianco, una tunica che io feci con antichi scialli di crepe de Chine a frangie lunghe, trattenuta da qualche fiocchetto d’argento scuro, uno dei quali scende pure dai miei capelli sulla tempia a sinistra e due piccoli sono sulle babbucce di velluto mauve. Un nastro mauve mi cinge la testa dorata.

Due ametiste tremolano alle mie piccole e vellutate orecchia. Calze mauve, nastri idem alla camicia, tra il merletto. Nessun altro indumento. Mi scintilla sul principio ciel seno la croce brillantata. Forse sono riuscita meravigliosamente bella! E sciolgo qualche ricciolo, spirale d’oro che scende sino al ginocchio; spirale d’oro con la quale legherò a me Roberto… Roberto… forse per sempre!…

Ore 4… Tremiamo come due ladri… L’ultimo bacio !

Apro piano la mia porta, non sento nessun rumore, meno le grida dei gatti innamorati. Io sembro un fantasma. Roberto mi lascia. Roberto esce dalle mie stanze! Mi par d’avere il viso gonfio, i connotati differenti, la testa ingrossata. Mi dolgono le labbra, le ossa, mi bruciano le palpebre mi continua un tremito impercettibile in tutto il corpo. Una grande ebbrezza, un piacere acuito sino allo spasimo, oppure, in fondo sento  uno strato d’angoscia, che tengo coperto  con la sensazione di piacere ma  tuttavia intorbida il mio non più limpido orizzonte d’amore… Sono colpevole? Non riesco a soffocare questo pensiero. Sono stata rc:,111l’ sposa di Roberto? Non lo so – io non lo so!

– Si, arpe e viole… e reseda; ma non  più… pudica sorella… questo è certo… Mi stringo la fronte fra le mani e resto li, pensosa e spossata. Il mio corpo prova un delizioso benessere, i miei nervi sono addolciti, quieti e buoni. Tutte le mie tri­ ne sono sgualcite, i miei fiocchetti d’argento quasi tutti caduti, i nastri strappati, i capelli scompigliati continuano le scintille d’oro, nel collo ho piccoli segni di rossolivido, sulla spalla destra l’impronta dei denti di Roberto… e dovunque sento tuttora i suoi baci violenti…

Sul tappeto del pavimento è un’orgia di violette, e cofetti frantumati; sulla pelle d’orso bianco giacciono le tartarughe che reggevano i miei capelli, il nastro mauve ed una giarettiera; una calza rovesciata sembra un bel fiore violaceo, morbido ed odoroso… appena divelto.

Il mio letto è scomposto, i merletti strisciano a terra, le coperte di seta bleu électrique formano un ammasso come una grossa hidrangea sbocciata da più giorni. Sul mio tavolo ho rovesciato le anforette, la cipria, son caduti i mu­ ghetti con le piccole trine del mio tavolo da notte… Tutto è in rivoluzione!

Fiori e dolci sul letto, sulle consolle, sui seggiolini, nel plinto d’edera e rose, nel cippo di madrepora, e tra le dita dei miei piedini bianchi… e nel mio seno, sulla mia carne…!

‘Povere violette calpestate – povera tazzina giapponese ridotta a pezzetti… per una tenera mossa… non mi sgrida­ te d’avervi fatto male!… Mi pare che anche loro debbano sentire e soffrire come noi…

O alba rosata e rorida, dai tenui veli come aliti di tanti esseri invisibili e vaganti nel ciclo, sorge un giorno nuovo. È un giorno di sole. Ed a me qual nuovo giorno porterai? o cielo roseo come il fior dell’oleandro, verranno le oscure nubi?…

note: 1. Lo stipendio

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