Ricordi di una telegrafista – 3

Quando la madre di Nina mi ha abbracciata, ho sentito che era l’abbraccio di una madre, pieno di tenerezza e benedizione! Scendeva proprio nel cuore, non come il bacio gelido della mia Contessa, che volava subito via come un pulviscolo…

Stamane era ancora in accappatoio, quando ho sentito suonare alla Mia porta con un frastuono indiavolato. Che c’è?! Brucia il Convento? — Arrabbiata apro in fretta… ed ecco in una bella gabbietta un magnifico pappagallo, che un facchino di ferrovia tiene, con massimo ossequio, nelle sue sporche mani!

Ah che piacere, che bellezza, che idea gentile! La promessa antica! … O Roberto, voi meritate due grossi baci!… Io salto, rido, canto, butto all’aria ogni cosa, tutto traballa, tutto tintinna, oscillano i cangiari lucenti… la mia allegria si sfoga come può! …

Zio Germano, c’è qui il pappagallo! Mamma, papà, noi siamo contenti oggi! Ecco la prima persona della mia famiglia! Ve la presento! Quando arriverò a casa, avrò qui questo piccolo che mi farà festa; perché gli insegnerò ad amarmi! Voglio che in me trovi la sua delizia e non rimpianga le odorose foreste, né la compagnia degli uccelli! E mentre lo liscio, gli do il biscottino, lo vezzeggio col ditino bianco e gli faccio mille moine.., ecco una vocetta fessa e stridente chiamare ripetutamente vicino a me, spalancando il suo beccuzzo: — Marina, Marina, Marina! È lui che mi chiama! mi chiama! ah ciò è… inaudito! Caro, caro, tesoretto, tesorino mio! A te un bacietto, un baciuzzo… a te… té, piglia! — Sa il mio nome! Sa il mio nome! Roberto glielo avrà insegnato ed io ora insegnerò a lui di dire Roberto: — Cosí: Rob, Rob, Rob, ber, ber, ber…toooo! ! Rob, Rob, Rob… ber, ber, ber, ber, to, to, tooo! Imparerà, imparerà! Poi gli insegnerò la Bohème. Ed io, lui e l’arpa faremo dei terzetti stupendi! Ma chi mai immaginava simile improvvisata? Dunque ti chiamerò Totillo. — Non so perché mi piace chiamarti Totillo… il perché non significa niente, ora dunque sei Totillo! Quello mi guarda… un po’ meravigliato!… Ma poi c’intenderemo presto; mio bel tesoretto. — Ed eccoti vicino l’heuchera, le piante di rose e di loto, le felci e due statuette giapponesi, piú di cosí non posso darvi compagnia, per oggi! …

Stassera per la strada correvo per il desiderio di essere presto a casa mia. Eccomi qui, Totillo — ora si pranza insieme — che dolce benessere! Mi lavo, metto la vestaglia, poi facciamo cucina, cucina alta questa sera! Ho della cacciagione, dono della signora De Ferronis, un cestino di pere d’inverno, burro fresco, un vaso di miele. Mentre frigge l’arrosto preparo i crostini, poi una fetta di prosciutto, dell’olive, un grappolo d’uva malaga, un zabaglione al maraschino — ah siamo ancora ricchi, bestiola mia! E sento un piccolo rimorso pensando alle povere colleghe che dispongono del solo stipendio ed hanno debiti. — Però la mia vera gioia è la libertà! Abbasso l’etichetta! Evviva le gambe incrociate e l’abbandono del corpo dove si sente attratto! Abbasso la rigidezza! Ecco: mi sdraio e mangio divinamente. Evviva la libertà! Se qualcuno mi sentisse mi crederebbe una anarchica o giú di lí. Evviva la libertà! Un profumino sottile parte da un mazzo di ciclamini, che stamane ho comprato da un fanciullo girovago: povero fanciullo, nessuno comprava! Sono arrivata io ed ho comprato tutto! Grande ribasso! Un affarone! E quello mi ha ringraziata, con due occhioni stupiti e contenti. Mi guardava come fossi una meraviglia! Dieci mazzetti, quaranta centesimi! E la mia tavola quanto è graziosa coi ciclamini! — Appoggio la fronte ai vetri e do un sorriso alle nubi oscure, orlate d’argento, ad altre di bianco perla, o di color nero fumo… — Ho da lavorare stassera, non è tempo per essere l’innamorata del cielo! … Totillo mi guarda silenzioso e raccolto, come un chierichetto vicino al prete celebrante. Io dipingo sacchettini da nozze. Ne ho cento! E là: una pennellata e nasce una margherita, una fogliuzza, una violetta… Sul raso bianco e tiro via! È il dono per Emma che prendendo marito va a Venezia. Colà c’è Roberto… Io me ne faccio una amica col mio regaluccio. Chissà! Potrei pure utilizzarla… non si sa quel che può accadere… Un pochino di politica l’ho appresa… e me ne servo.

Se non che, io non posso durarla molto in un dato lavoro ed il cielo mi riafferra di nuovo, vedo un grande blocco di granata lucente; si fonde dietro la montagna impallidendo. Nell’orto, il giardiniere si trascina dietro un bell’albero di fico, segato alla base.

– Perché, Gustavo, perché l’avete tagliato? — domando all’ometto segaligno e curvo come un uncino.

– Per mettere delle rose a primavera, signorina.

Ah! e leverete anche il melograno?

— Quello no, signorina, quello rimane.

Ah che idea! proprio da monache! Meno male che il melograno è salvo, mi piace tanto!

Poi ho riveduto la mia bicicletta…

Una piccola formica gira sul mio desco e mi angustia un poco, perché se il mio piede in fine ne facesse scempio? Eri forse nel fico del monastero, povera formicuzza? — Per salvarla sbatto la tovaglia nell’orto… Lana cenerognola passata allo scardasso, mostri marini dai grandi tentacoli, un ammasso di seta rosa sfilata, due grandi orsi alzati sulle zampe, grandi falci opaline, svolazzi di veli e mussoline verde pisello, sopra tronchi di piombo, pennellate d’inchiostro violetto e nero… Cosí pare nel cielo! Metto l’anima nello sguardo! Se potessi spiccare un salto, afferrare quella lana, quei veli.., e sprofondarmi con loro e con te, o sole, dietro il monte per risorgere con te in terre nuove, lontane, sconosciute…!

Camicia-azzurra, il piccolo prigioniero, cosí chiamo un bimbo scialbo, vestito d’eterna camiciola turchina, è relegato a studiare in una camera vis-à-vis con le mie finestre. Sempre solo e triste, guarda il mio Totillo con due occhietti da spiritato! Non deve aver visto mai una simile bestia! Gli lancio con abilità una bella pera, che rimbalza sul tavolinetto, ruzzola a terra, e Camicia-azzurra mi sorride, l’afferra come una scimietta e se la mangia… la pera. Guarda spesso verso la porta. — Egli teme qualcuno: forse una matrigna, una serva-padrona. Quel povero piccino non deve aver madre. Non deve conoscere carezze. È magro, stortino, ha la pelle bianco-bigia con i labbruzzi scoloriti. Quando mangia i dolci che gli butto io, si rianima, poverino! Rimane ore ed ore fermo al suo tavolino, con la manina regge la fronte. — Poi una donna lo chiama, ed egli si alza e si tocca i fianchi che deve avere indolenziti. — Mi rivolge un’occhiata e si dilegua. Povera Camicia-azzurra, mi fa compassione! Ora il mio cielo, il mio grande angolo è tutto di metallo — grandi fasci di verghe metalliche e rocce d’acciaio, macigni di granito, tanti massi di ferro e blocchi nerastri di grafite. — È bello orrido come un precipizio! Pioverà stanotte?

Oggi all’ufficio, un po’ di vita insolita… Regnava un certo fermento che mi piaceva: sentivo odore di mischia! Mentre nella via sottostante urlavano gli scioperanti, mi sono affacciata di sfuggita alla finestra. Hanno veduto il mio grembiulino rosso, dai larghi nastri sulle spalle e trinette nere. È stato come un segnale di battaglia… Tutti quegli scalmanati si sono rivolti a noi gridando: — Venite giù, lavoratori del telegrafo! — E poiché noi non.., potevamo scendere.., siccome noi non accennavamo a scendere.., sassi, pietre ed insolenze hanno ondeggiato per l’aria e sono salite a noi, fracassando i vetri delle finestre, i frantumi sono giunti sugli apparati…

— Se qualcuno è ferito, io sparo! — Brontola il nostro direttore irritatissimo. Diamine, diamine, non sparerà! Ma son frasi che fanno bell’effetto! Son chiuse in fretta le persiane, si accendono le lampade a gas… C’è un po’ d’orgasmo! I bersaglieri nel cortile, fanno un rumore insolito… Poi un affaccendarsi di superiori che.., hanno più tremarella di noi… Ed è tutto! A poco a poco si riaprono le finestre. Meno i vetri frantumati dello sciopero esterno non abbiamo più sentore! — Nel parapiglia chi se l’è goduta è stato il Gallo della Checca con Celina e l’Oretta con l’altro… Eccetera eccetera! Tutti i piccoli e grandi flirt hanno avuto un momento propizio! Poi una literella per i congedi tra la Mariani e l’Ebe Sirtori. Mariani riscaldandosi, con ironia mormora lentamente: — Oh già! È ben giusto che lei abbia la precedenza! Non ha fra le altre benemerenze quella di suonatrice di trombetta?! (traduci spia!) Una voce prontissima:

— E fece del suo c… trombetta! ! ! Succede una risata generale e Mariani borbotta:— Farà anche quello, non ne dubito! Farà anche quello! Ebe furente, rossa, pure si frena e risponde soltanto: — Canti, canti, sputi il veleno!

Poi le due furiose riprendono il lavoro con una specie di rabbia contro gli apparati, martellano il tasto con fracasso indiavolato e caricano con veemenza l’apparato ricevente.

Mariani è brava lavoratrice, ma impulsiva, veemente, schietta e tenta reagire contro i soprusi. — I superiori li disdegna, non li guarda, non li saluta… Si dice che.., la staffilino, quando si offre il destro. Sirtori invece è tutta lusinghe e graziette… La viltà umana in fine spinge qualcuno a non guardare la Mariani per corteggiare la Ebe, che è in grazia… sovrana! Quindi la poveretta non trova pace nel suo lavoro. La provocano, la stuzzicano e se finisce col trascendere dopo averne sopportate di cotte e di crude, si piglia gravi punizioni. Così la cronaca.

Le hanno creata fama di prepotente, di fastidiosa, di attaccabrighe, invece pare che ella si giovi soltanto d’un diritto umano: La difesa! Dicono che abbia respinto le benevolenze d’un papavero locale e l’odio della piccola Eccellenza non sia crollato più. Sarà, non sarà? Dicono che a questi signori «Locali», il Ministero dia carta bianca, quindi immaginarsi… Un re assoluto in un piccolo regno… alle prese con i propri desideri sferzati… ed insaziati! Certe piccole crudeltà raffinate dicono siano in vigore e c’è chi domanda tra il serio ed il faceto: Che ha fatto oggi Abdul Hamid?! — E riferendosi a certe collere bianche che fermentano in segreto come la materia vulcanica prima che erompa dal cratere, altri esclamano al passaggio del Reuccio: Ivan! Ivan! Il terribile! …

Naturalmente si parla pianino, altrimenti.., la va male!!

Certi caratteri sanno adattarsi, altri no… Nina Sambise è inadatta, e soffre e soffre. Cosi Mariani, cosí Caroli e tante altre. Napiero invece ne ride e barcamena, però guai se la toccano! La bella quaglietta apre il beccuzzo e strilla! Non è raro il caso che ella gridi arrabbiata: La disciplina militare?! L’Austria, l’Inquisizione…?! Giuggiole! Confetti… sono quelle al confronto dei nostri tribunali, il Ministero viene infinocchiato, infinocchiato! Credetelo! Lassi non sanno ciò che bolle in pentola. Se fossero al corrente di ciò che accade in realtà… la «festa» verrebbe fatta a… eccetera, eccetera, eccetera! — Si dicendo la bella quaglietta fa una risatina, una piroetta graziosa e corre altrove… Di me hanno una certa soggezione — perché sovente — un servo gallonato viene a portarmi un biglietto o mi attende a basso con l’equipaggio della contessa Brighten. Sanno che frequento l’alta società e l’alto clero — quindi mi fanno mille cortesie. Vado, sto, lavoro, o no, secondo mi pare: nessuno mi dice mai nulla! Soltanto oggi mi ha chiamata il direttore. (Il segretario che m’accompagnava aveva un’aria cosí stupidamente furba, che volevo ridergli sul muso!) Appena entrata dal direttore m’inchino con grande ossequio. L’ometto mi guarda, si rigira, tira la barbetta. — Un tic nervoso gli scuote uno dei baffi: i suoi occhi lucenti incontrano i miei un po’ beffardi, un po’ sguaiatelli. L’egregio direttore non sa trovare la calma ed io mi diverto a sconcertarlo… Con abili mosse gli mostro il mio braccio bianco e vellutato come una pesca, la gola fresca, il piede appena velato da una bella calza a ricami e trasparente. All’egregio direttore aumenta il malessere. Poi si alza e mi prende la guancia tra due dita, paternamente… Mi alzo anch’io e lo guardo con un’espressione cosí dignitosa ed aristocratica, che lo rende subito timido timido e lo arresta… Finalmente mi rimprovera la mia amicizia col direttore d’un giornale, e vuole delle giustificazioni da parte mia. — Era amico di mio padre, signor direttore… — mormoro chetamente. Egli mi ripete la carezzina… paterna, poi mi tocca la mano, poi il braccio… Ah basta! Io suono il campanello elettrico! Tosto arriva l’usciere… ed io me ne vado con una bella riverenza ridendo del tiro birbone giuocato in tempo. Ah signor direttore, come siete sciocco! Devo dunque consultarvi sulla scelta degli amici? Voi temete che porti notizie ai giornali?! Ah malandrino! E perché ci fate fare il giuramento se credete che nulla valga? — Ho tollerato la carezzina… ho tollerato ed ecco che sono già giustificata, ma se era Nina, rispondeva male e si buscava la sospensione dal servizio! Meglio sopportare la carezzina!! — Cosa penso io… che sono filosofa nata e compatisco la debolezza umana… anche quella dei… dei… (silenzio).

Piove. — Siamo tutte inzaccherate.
— Eccoci nel grande salone — pronte per gli esami. — Io, Nina, Siccotti, Bartoli e tante altre sconosciute e dei giovanotti che ci guardano curiosamente. — Io ho portato una boccetta di fernet, dei dolci e la ghiandina dei sali, come temessi uno svenimento. Gli ispettori centrali ed aggiunti mi fanno la ronda intorno benevolmente… Gli esami sono facili, io non ho bisogno… Sono severissimi.., altrove, cioè agli altri tavoli d’esaminandi.

— Ed è finito anche l’esame! — Simpatizzano, fraternizzano, tra loro i giovanotti con le signorine: c’è movimento, vita — pare una festicciuola, un’accademia in un quarto d’ora d’intervallo. — Me ne sono andata in fretta in fretta. — Chiusa in un Loden scuro, con un berretto di pelo, guanti grigi ed una borsetta di pelle idem. Toilette da viaggiatrice.

— So di stare benissimo in quella foggia semplice ed elegante. Camminavo quindi lieta come una donna che sa d’esser ben vestita, pensando a tutta quella povera gioventù, che si prepara a rinchiudersi negli uffici per 2 o 3 lire al giorno ed è tanto ansiosa di entrarvi come fosse una cuccagna! Pare impossibile non si sappia far altro che dar la caccia agli impieghi! Ma fate i contadini, gli operai, starete meglio! Per me è diverso: sono troppo delicata, ma se fossi forte non farei la lavoratrice dell’elettrico.

La zappa, piuttosto la zappa, almeno si respirerebbe aria sana! Niente direttori, né ispettori e compagnia.

— Ridevo strada facendo, per le macchiette della giornata: Chi lungo, chi corto, chi grasso, chi magro, chi timido, chi… Quante faccie m’hanno fatto ridere! Ma… cosí… bonariamente, non per dileggio. Senza accorgermene mi sono trovata naso a naso col banchiere; all’angolo di un vicolo.

Mi ha sbarrato la via — risoluto a parlare con me: — Non fate scene, ascoltate un momento. Via, sentite, ecco prendete, sono per voi; venite con me subito! Solo dieci minuti, solo per «vedervi».

Continuava su quel tono, accalorandosi, parlando con esaltazione e mi porgeva due pacchetti di biglietti di banca, legati da un nastrino di seta, cioè diverse migliaia di lire… Io sono rimasta né offesa, né indignata. — Neppure ho avuto alcuna tentazione, era semplicemente stupida e consideravo la cosa con la meraviglia che mi avrebbe destato un altro fenomeno, che mi fosse capitato innanzi all’improvviso… — Lasciatemi proseguire la mia strada! — gli ho detto con alterigia. — Ma voi siete dunque pazza? Rifiutate la fortuna, per tribolare in un miserabile lavoro che vi dà appena il pane?! Accettate, accettate! Non siete adatta per un ufficio, per un impiego. Siete «Signora» in tutto e per tutto: nelle vesti, nel parlare, nel gestire, nel vostro profumo singolare — è impossibile che voi restiate al Telegrafo! Io ero in vena di pazienza, quindi ho tollerato i suoi discorsi, come neppure mi riguardassero — ed egli ha insistito con tutto il calore del suo desiderio. — Approfittava di quel momento d’indulgenza da parte mia. — In fine visto l’inutilità del suo tentativo ha concluso con amarezza: — Almeno ricordatevi in qualunque evenienza, che mi troverete immutato pronto per voi a qualsiasi pazzia! Ricordatevi! Promettetemi questo! Ho promesso tanto tanto per levarmelo d’attorno. In sostanza provo un cattivo piacere di quella passione. — Ah per vedermi dei biglietti da mille, ma ad un povero date mai una lira? ! ! Forse mai! Che vergogna signor Banchiere!

Abbracci, baci, auguri, partenza! La bella Emma è sposa! — Oggi, con lei, tutte erano gentili. Senz’eccezione. — Adesso si commenterà, parlerà per qualche giorno, poi silenzio — parce sepulto! Sono infarinata anche di latino, s’intende! Col Padre D’Orelles per tutore ed alle costole per tanti anni, bisogna per forza intendersi di latino. — Il Reverendissimo è contento. — Nessuna seduta spiritica! — Ho rispettato la promessa, tanto più che i miei amici in «ispiritismo» sono ancora assenti. — La Contessa, il Conte Firmino ed il seguito sono ancora a San Remo. — La Marchesa De Aris a Parigi per farsi smaltare (cosí dicono i maligni). — La signora De Ferronis, a Villa Quiete per le caccie autunnali, le Miss inglesi sono a Londra per la «Season», dunque tutti sgranati come i coralli a cui si spezzò il filo. Ancora qualche giorno però; poi ritorna il mio vecchio mondo aristocratico.

Oggi Ebe Sirtori si svestiva nello spogliatoio. Credo non avesse camicia! Ma soltanto una rete di seta a maglie larghe. Le punte dei seni vi uscivano.., come due bei bottoncini da polsino! Lella Baldini glie li ha baciati ridendo e scherzando… Io sono fuggita, disgustata, ho avuto subito un pensiero perverso e tutta agitata sono andata da Matilde, rossa anch’io come avessi preso parte ad una colpa! Matilde ha riso della mia agitazione e mi ha detto scrollando il capo:

— Che vuoi farci, Marina!? È la natura che reclamerebbe certi diritti; noi non possiamo concederglieli, quindi si ripara con dei sotterfugi dannosi! Però hanno il merito di non far nascere… complicazioni!!

– Perciò… quelle due?!… — ho chiesto con timidezza… e vergogna…

– Ma non so! Forse… dico cosí — in massima…! Può darsi fosse uno scherzo innocente…

— E la Zerbini con la Vellaro? 1 Tutta quella esagerata amicizia? !…

– Dicono… ma chissà — vi sono tanti maligni…! Magari è affetto sincero, onesto… Preferisco crederlo tale.

– Che ne pensi!? Dimmi francamente — supposto che… realmente…

– Io? Niente… Sono miserie umane, se è vero; pare una bruttura mentre… probabilmente è solo una necessità. Ma tu sei ancora… ignara di queste cose?! Trovo che è un pochino… raro! Meglio, meglio!

– Dimmi, un’altra donna può dare il piacere come un uomo? — chiedo senza raccogliere l’apprezzamento.

– Ma… forse si, forse no… Secondo i casi…! Ma senti, finiscila con queste domande, mi dài fastidio! Non l’intendi? Non parlarmene piú!

Ora penso che la mia crisi di baci, le mie ansie, le mie smanie, le mie bizzarrie, la veemenza dei miei baci, quasi è certo derivano dalla mia giovinezza, che — come dice Matilde — reclamerebbe dei diritti! Abbiamo dunque in noi un nemico piú forte della nostra volontà che ci spinge a commettere atti indegni.., senza l’amore? !… E Matilde riannoda il discorso dicendomi:

— E tu dunque non senti nulla, Marina? Davvero sei di maiolica! E vuoi un’altra ragione di queste bassezze? Sino a pochi mesi fa l’Amministrazione ci vietava il matrimonio l! Puoi trarne le conseguenze! Ancora la colpa è di questo miserabile Governo!…

Seduta sopra un macigno, presso un rivo asciutto, guardavo due grossi noci piantati in due opposte rive. Coi rami s’intrecciavano in un amplesso scheletrico. Le foglie giacevano secche al suolo. — Dicono che l’ombra del noce sia mortale. — Morir qui sarebbe pur bello. — Dormire e morire e rivivere! Della vita ultraterrena io ho parecchie rivelazioni ottenute nelle sedute medianiche. Ma sono realmente comunicazioni d’oltretomba? ! … Una forte compassione mi danno questi alberi brulli di foglie, ed un ciliegio tisico, sottile e storto. La montagna ha perduto la sua bella scorza verde. Tutto è color di pigna secca — e sfumature violacee e rossigne come il sangue coagulato. L’edera resiste tenace, abbarbicata agli alberi, e sui muri diroccati e tra i macigni, rivestiti di muschio. Anche le piante di lauro mantengono il loro tondo di smeraldo, che ravviva tutta la scena. Per la salita non posso proseguire pedalando e smonto, guidando colla destra il mio cavallo di ferro. La via è molto ripida sino a villa Quiete. A me piace conversare coi vecchi, quindi mi accompagno con una vecchietta carica d’un fascio di legna! — Mi discorre di tante cose: — i raccolti, i figli, i ladri, i signori in villeggiatura, poi le streghe del crocevia dei Rossi, che appunto traversiamo.

— Ed ora, Assunta, perché non vi sono più streghe?! Voi lo sapete?

— Vi sono ancora, ma poche! Perché i preti bruciarono tutti i libri — ma anticamente si convocavano qui a mezzanotte… al crocevia. — Ella mi dice, seriamente convinta.

— Ma non temevano la croce… via…? Se c’era la croce, diamine?! — rispondo con furberia.

Assunta, grattandosi il naso, risponde senza scomporsi e con molta gravità:

— Forse perché non era una croce benedetta, non la temevano, signorina!

Ancora si chiacchiera, salendo adagio adagio e quando Assunta piglia una scorciatoia, me ne dispiace! Le ho regalato una lira. Ed ella, levandosi un Rosario di tasca, mi ha detto con effusione:

— Pregherò per i suoi morti! Pregherò per i suoi morti! …

Dal tortuoso e ripido sentiero, curva e sorridente, mi ha guardato sin che ha potuto e sempre col braccio in alto e la corona dondolante come a ripetermi la promessa: «Pregherò per i suoi morti». Che idea delicata!

lo di un corpo affranto, di cui cuore e cervello sostengono un peso immane! t quello d’un piccolo fiore schiacciato tra due pietre da cui sporgono i poveri petali morti! quello del misero uccelletto spezzato da un sasso crudele, e che posa il capino… inerte per sempre… — Vorrei la mamma, come la chiama un bimbo ammalato, un povero piccino sofferente! Oh io mi sento cosí piccolina, battuta, tormentata, senza aiuto… smarrita tra le bufere e l’imperversare delle nevi, tra il gelo e le belve affamate… lassú… nelle Alpi… senza rifugio… assiderata… vinta! Cosí mi sento: come un fanciullo perduto, spaventato nella notte, dalla solitudine, dal buio, preso da folle terrore!… Sono annichilita — disfatta e non vedo scampo, non vedo scampo!

La signora De Ferronis mi ha detto tutto!

— Roberto, tra pochi mesi, sposa una signorina inglese, stragonfia di milioni! Oh scellerato Roberto! Almeno dirmelo, confessarmelo! Altro che pappagallo e sorella Chiara! … Oh ma io non ho voglia di cedere cosí… flessibilmente come un giunco sottile, a cotesto nuovo evento! Adesso so che amo Roberto!
  È vero che io lo trattai malamente e lo respinsi e giuocai con i miei piccoli artigli sulla carne sua, facendola sanguinare… Oh Roberto, Roberto! … Ora… senti.., come ti amo!… Mi sono sollevata dal letto, riaprendo i miei grand’occhi fissi, immoti, come fossero di vetro — come presa dal sonno ipnotico. Seduta a terra, mi vedevo riflessa nel mio grande specchio, tra le rose e l’edera del plinto ed il grifone dalle grandi ali tese… e parevo una giapponese; di quelle figurette accovacciate, raggomitolate, che ritirano gli arti inferiori sotto le sottane come la chioccioletta si ritira entro il suo guscio! Ho capito che perdurando in quello stato nulla avevo da guadagnare; null’altro che diventare grottesca! Quindi mi sono mossa, a poco a poco — con enorme fatica come dovessi spostare una carrozza della ferrovia!

Un po’ barcollando… un po’ inciampando.., ho finito col ritrovare l’equilibrio! Mi sono bagnata il viso nell’acqua odorosa del mio caro profumo; ho legati i capelli con un bel nastro — stretto alla nuca — ed il gran mazzo d’oro filato disteso lungo il dorso — mi lascia più fresco il cervelletto. Mi ravvolgo in una vestaglia morbida fatta a guisa di mantello con largo cappuccio come un accappatoio da bagno; tutta rosea, senza ornamenti… ma d’un roseo cosí soave che conferisce una fisonomia dolcissima, ideale, fatta per ispirare le più pure ebbrezze e sognare che si vola tra le nuvolette di madreperla e piropo… Il freddo della sera ha risvegliato i miei sensi intorpiditi e richiamata alla realtà della terra. All’orizzonte vedo grosse vene di ferro e d’argento… come nelle miniere della Sardegna… Ebbene, anch’io sarò di ferro!

Anch’io avrò l’argento! Bisogna che io studii un piano di guerra affinché i milioni inglesi non vengano ad intralciarmi il cammino!

Ho fatto un fuoco, come nelle grandi occasioni! Le belle bracie, colla loiola scintillante, mi allietano; il mio scoramento, dopo che ho ingoiato prosciutto e galantina con tartufi, consommé con tapioca, zabaglione con marsala… ed ho bevuto due bicchierini d’Alicante — va perdendo… consistenza!

Mi sono calmata e ragiono. I miei piccoli piedi battono un ritmo nervoso; ma sono le ultime mosse, gli ultimi guizzi della murena alla quale è tagliata la coda! Non più fremiti non più sussulti — però sono viva egualmente! La smania di riabbracciare Roberto e contenderlo alla sua inglese mi dà colpi violenti al cuore, il cervello invece è perfettamente lucido.

— Oh Roberto! … Abbandonata nella mia chaise-longue, accanto al caminetto, con gli occhi velati.., rievoco.., la notte del mio.., fallo.., dei nostri baci furenti… E provo una voluttà squisita… una morbidezza nel sangue… mi pare di sentirvi passare la felpa del velluto e che io tutta nuda mi immerga in un bagno di petali… Ah che brividi! — Roberto — Roberto — chiamo, lo chiamo! … Non sarò dunque più nulla per te? Un’altra donna vivrà con te tutta la vita?! Un’altra donna riceverà i tuoi baci?! — Una collera violenta mi fa di bel nuovo sussultare, tremare, e sento in me un ruggito di belva ferita! Questa idea non posso tollerarla! E se non fosse vero?! Se la signora De Ferronis fosse male informata? — Bisogna che io sappia la verità — e la saprò! Ero tanto lieta, oggi — ed improvvisamente.., eccomi fiaccata! — Il piccolo corpo dal viso pietroso, col cranio pelato ed i 13 capelli flavi preparati da un abile Figaro, quegli occhietti di talpa, orlati di rosso.. dalle occhiaie gonfie e rugose, quelle labbra violacee ed i baffi impiastricciati, quella carne frolla: quell’ometto disfaldato dal tempo, appena appena connesso… il Conte Firmino — mi appare innanzi al pensiero… La sua figura mi ripugna — però… Ah se avessi la forza di accettano?! Anch’io ricca, anch’io contessa, anch’io… alla pari — e prendermi tante e tante rivincite.., oh che teatro di guerra! La trovata non ha nulla d’originale però potrebbe essermi opportuna; e per compensare il mio sacrifizio… prima sarò di Roberto. — Sarò la sua sposa d’una notte! — Poi, Marina non l’avrai più! — Vedremo se… dopo mi potrà dimenticare, vedremo se… dopo… quando c’incontreremo in società saprà essere indifferente! — Allorché avrà la sua inglese al fianco, io gli passerò accanto, idealmente bella, nella cornice della ricchezza che saprò bene utilizzare… Il vecchio conte mi permetterà tutte le follie.., è sottinteso! … Oh, Roberto! che io ti vinca, è quasi certo! … Ma la mia vittoria.., quando dovrò salire nel coupé col mio flaccido consorte, quando egli.., nella solitudine del mio appartamento — licenziate le cameriere — verrà intorno a me, che sono cosa sua — la concupiscenza brillerà in quegli occhietti orlati di rosso, quel labbro ripugnante vorrà posarsi sulla mia carne, quelle mani dal tremito di paralitico s’avanzeranno per… ah quale orrore, quale abbominio, quale infamia! Mi pare già di vederlo. Il suo volto avrà il ghigno del satiro; un ceffo d’inferno! … E preso da un parossismo folle.., egli pare epilettico… ha la bava… la bava alla bocca nello spasimo dell’impotenza, nelle torture del suo midollo spinale semispento… svigorito…, la mia vittoria… oh Roberto che cosa atroce, atroce, sarà in quell’ora!…

Ho appoggiato la fronte sul marmo della caminiera, le mani sulle ginocchia si stringono con veemenza e mi rammento del disgusto provato un giorno, in cui sui tetti vicini vidi l’amore di due gatti! Allora non capivo; eppure la mia nausea fu tanta lo stesso. — Il maschio aveva una zampa ferita dai pallini, il pelo irto, gli occhi semichiusi per scottature d’acqua bollente che un cattivo vicino gli aveva lanciato.

— La femmina era una gattina tutta nera, snodevole, girava sui tetti quasi strisciando come i rettili — gli occhi d’oro vecchio covavano il maschio, pieni di languore — inghiottiva come avesse cibo in gola, ed emetteva gemiti supplichevoli — la sua lingua si muoveva in un furioso movimento di rotazione e quegli occhi d’oro vecchio erano imploranti… mentre reclinava la testa a sinistra… Attendeva l’amplesso! Ora lo so! — Ma il maschio, col collo eretto, allungato come estatico — non aveva che tremiti alla schiena e vibrazioni alla coda.., non poteva risolversi… Era l’impotente! Che schifo mi fecero, eppure ignoravo ancora che significasse quella scena! … E… 13 capelli?! Ecco come quel gatto e peggio ancora! Senza alcun dubbio! Ed io mi esamino, nello specchio mentre mi spoglio per coricarmi. — Innanzi alla mia carne cosi bella, a queste linee superbe mi commuovo e rialzo il capo con una mossa di sfida… Ed i miei capelli che scendono sino alle caviglie, un metro e trenta di lunghezza, fini, morbidi, pieni di bagliori dorati! ?… Ho una miniera d’oro sul capo, una di ferro entro il cervello… Ah ti sorrido, specchio mio, ti mando baci, ti tendo le braccia ed il mio delirio mi prende! Bacio.., bacio.., i miei capelli, li mordo, mi avvolgo in loro, li abbraccio con frenesia, mi bacio tutta, indi i mobili, la mia arpa, Totillo, l’Ebe negra, in fine ricado sul mio lettino d’ottone convulsa, fra le coperte bleu-électrique, ove Roberto mi fece conoscere le prime ebbrezze dei sensi, e spero, spero ancora, chissà! Mattino… Ecco la valigia. — Le camicie piú belle, veli, nastri, accappatoi, calze di seta ed un velo azzurro ed argento lungo quattro metri!! Una rarità pregevole, non so dove né in quale secolo sia stato lavorato. So che era di una mia antenata. Me ne farò un manto ideale. Eccomi piena di tante belle cose per abbellire, per affascinare, per turbare, per far diavolerie! Addio Totillo, addio Camicia-azzurra — io vado a Venezia!

All’Hotel Danieli, sotto il nome di De Fanti (pardon egregio avvocato) attendo Roberto al quale ho telegrafato.

Egli crede di trovar qui l’avvocato di sua madre. Verrà e troverà me! Altro genere d’avvocatura! Ho messo un abito di merletto nero, il primo abito nero che porto. Sempre roba ereditata, ma sempre fresca e bella. Il mio viso bianco su quel nero, e la testa dorata sono d’un effetto stupendo.

Ho portato con me tante viole e vaniglia. — Ho voluto dare una intonazione poetica alla scialba camera d’albergo. — Infine sono pure un ricordo di ore felici.., povere violette! Ne ho un mazzetto in cintura. — Ho le scarpine color di vaniglia, cosí pure le calze. Mi piace armonizzare coi fiori che porto. Sono irrequieta, non posso star ferma, né la bellezza di Venezia ferma la mia attenzione. — Aumenta la mia ansia! E se non venisse? Ah! se potessi, volerei dalla finestra…

Finalmente un rumore di passi… un minuto, un altro minuto e Roberto, Roberto mi afferra, mi stringe, mi solleva, con entusiasmo, con gioia frenetica! — Non chiede nulla, non parla. Mi stringe, mi palpa, mi odora, mi lambe, mi brucia, mi fonde! — Tosto reagisco contro me stessa. Mi scuoto. Non è tempo ancora d’abbandonarmi. — Con uno sforzo respingo l’irruenza dell’animo e della carne.., poi mi decido e parlo dolcemente.

Sono sorella Chiara… in una posa di tenerezza fraterna per raggiungere il mio scopo…

— Parliamo, Roberto, senti che novità piacevoli! — Ho ereditato un duecentomila lire circa e sposerò un tedesco conosciuto in casa De Ferronis — sempre che vi sia la tua approvazione! — Nell’imbroccare così le mie menzogne, guardo con ansia i lineamenti, l’espressione di Roberto; vorrei scoprirvi che effetto gli producono le due notizie lanciate con tanta semplicità, malgrado il loro valore intrinseco. — In lui vedo una forte sorpresa:

— Ma… seriamente, Marina? Ciò che dici è serio? Seriamente! perché dovrei dirti queste cose, se non fossero vere! A te, il mio fratello, il mio primo affetto di fanciulla… Gli parlo con dolcezza materna, narro la mia storiella con tanta competenza e serietà che Rob non dubita più. Cito documenti, nomi, date, con l’abilità d’un avvocato!

— Dunque, Roberto, io sto accomodando la mia vita, ormai sono a posto — e tu mio caro, hai trovata la tua anima gemella, che farai?! Gli sorrido, lo guardo e gli sorrido mentre ho nel cuore contrazioni spasmodiche, come i crampi che capitano ai muscoli e li rattrappiscono talvolta…

Mi ha confessato, ha confessato, è caduto nel tranello! t vero il fidanzamento con la Miss inglese ricchissima, è vero tutto! Il mio cuore si contorce come serpe in agonia…

— L’ami, Rob? — domando mestamente. Oh no, no — amo te Marina, lo sai. Almeno credo che questo sia l’amore, giacché con le altre donne non provo l’emozione che tu mi susciti! Io barcollo.., sconcertata.., improvvisamente cambiata: Perché la sposi dunque? — nella mia voce è pena… sorpresa… sottile rimprovero…

— Marina, tu m’hai dato notizie liete, invece io dovrei dartene di ben tristi! Sono quasi rovinato, eccone una! Il resto lo comprenderai, mia buona sorellina… Egli ha parlato ancora con amarezza profonda. Sembrava invecchiato di dieci anni — ed io mi sentivo la vita sfuggire per tale rivelazione, che cambiava totalmente la situazione ed i miei calcoli.

RICORDI DI UNA TELEGRAFISTA 73

  • Rovinato! tu, Rob? Ma è possibile ciò che dici, mio povero caro?! — Dopo questa scoperta lo compativo, il mio dolore e gelosia cambiavano forma…
  • così purtroppo! — poi ha tenuto gli occhi bassi, pareva riflettesse, taceva evidentemente, immerso in ricordi spiacevoli — aveva le labbra pallide ed un tremito nelle mani.

Io, pii dolcemente ho domandato:

— Per le donne, non è vero? Per quelle… donne, di tutto questo son causa le donne?

Egli debolmente ha risposto confermando:

– Sí quelle ed… altro… ancora!… — Ed io per una specie di intuizione con impeto:

— Il duello? — gli ho gridato in fretta. — Allora egli ha sussultato, tremava…!

Si è alzato di scatto, improvvisamente livido e disfatto, pareva volesse fuggire… guardava intorno con visibile spavento. Il terrore invadeva anche me… senza alcun motivo… senza sapere, senza capire! — Intuivo qualche cosa di spaventevole! Roberto ha fatto portare champagne: ne abbiamo bevuto — il momento tetro è passato in fretta. Ho riannodato il discorso, delicatamente, accarezzandogli il bel collo robusto ed i capelli di moro. — Io ritornavo sincera — non avevo piú collera — né motivi di mentire e gli ho detto teneramente:

– Dunque vuoi bene a me e sposi l’inglese perché ti dà il denaro necessario! Ti compiango, Rob, — abbracciami dunque. La storia è vecchia. Non pensiamo piú a cose melanconiche, per questa sera ricordiamo soltanto che siamo giovani, che siamo belli, che ci amiamo! La nostra giovinezza trionfa di tutti i calcoli del mondo — i nostri baci, le nostre carezze ci fanno ricchi, arcimilionari. — Senti come ti amo. — Il mio cuore non è piú metà pietra, metà carne… come tu dicevi — è tutto sangue, ricco, violento, che batte per un sogno che non raggiungerà piú mai — eppure batte, batte ancora per questo… Oh io vedo, Rob, che il mio sogno è infranto, ma lo seguo lo stesso — perché era bello! Bello come te, bello come la madre, bello come la vita, bello come la morte.

— Poiché sappilo ora, Roberto mio, che speravo di riavere la mia villetta, vivere là, con te — quando la tua carriera te l’avesse permesso. — Sognavo che sarei venuta qualche volta con te nei tuoi viaggi, sull’oceano — poi saremmo salpati .in quei paesi tanto diversi dai nostri! Sí belli di una flora gigante e strana, di una fauna altrettanto bella e nuova… Ci saremmo perduti nelle foreste, tra gli uccelli dalle ali e code ingemmate, lunghe come le code delle dame al ballo. Là tra i sicomori, le palme, il cocco… Tra gli urli delle lontane fiere, con le quali avremmo avuto in comune l’amore delirante.

— Oh Rob, Rob, senti, senti la mia disperazione! Questi tuoi occhi non sono piú miei, la tua voce non mi carezzerà piú, i tuoi neri capelli non potrò piú baciarli, il tuo viso non lo vedrò piú, le tue collere, i tuoi capricci di bimbo non li vedrò più. — Oh meglio la morte, Rob, meglio il nulla, la cenere, il vuoto, il nulla! Rob, sei bello, bello, bello — vieni dunque nelle mie braccia, baciami a lungo sul collo, sulla nuca, sulle labbra e lascia che a te baci gli occhi.

— Gli occhi che sanno amare, che amano me… Marina, solo me… di te. Roberto di Marina!

— Io ti bacio, Rob, e tu mi baci — credimi questi baci sono diversi, ora che so di doverti perdere. Hanno un profumo penetrante come certi fiori che danno le vertigini… E saranno gli ultimi… Non sapevo dirgli meglio tutto l’animo mio! Ci siamo tenuti avvinghiati in una stretta disperata, piangevamo entrambi, mescolando le lagrime, i nostri aliti, il nostro sangue in tumulto…

— Quanto sono felice ed infelice ad un tempo, Marina mia, mia! Tu non sai l’angoscia della mia anima, non puoi saperne i lamenti! Sono un uomo — debbo essere forte, ma credimi ho una febbre nel sangue, che mi uccide! Poveri, poveri noi! — Non ha potuto frenare un singhiozzo — ed io colla testa sul suo petto: — Vorrei poterti dare i pensieri che sollevano: calmare la tua febbre, non so, non so…! Perché non mi dici le tue cose tristi? Non ti farebbe bene? Tutto vorrei sapere… sapere! Anche soffrir di piú, ma sapere, che hai fatto, che hai fatto!?

— No, no — solo baciami cara, baciami, poiché mi rinfreschi il sangue. — Tu sei la mia sposa e la mia sorella. — Ho un pugno di ferro dalla gola allo stomaco, mi stritola e martella. — Lasciami tortura, lasciami tortura, lasciami tortura!…

O Dio, Dio mio, mi pareva che così dicendo Rob fissasse un punto e vedesse qualcuno che lo minacciava! Di nuovo mi riafferrava il terrore… come prima…

— Adesso mi ami anche tu, Marina? Proprio senza riserva?

— Tanto, tanto, Rob. Completamente. Non lo senti? Non lo vedi?

— Ecco nuova fonte di dolore! Eppure te ne ringrazio, perché è anche felicità, la mia sola felicità!

— Vogliamo fuggire, Rob, emigrare, sparire, vivere di noi e per noi?!

— Questo pensiero è bello, Marina, ma… e mia madre?! Il patrimonio distrutto ed anche la mia fuga?! È impossibile le dia tanti dolori. Ella non deve sapere le mie follie — preferirei morire! Sai che io venero mia madre. In ogni modo amami, sentimi tuo, sappi che sono di te finché avrò un soffio di vita e credo anche dopo, quando il mio corpo non sarà che fango, non sarà pii che un’orribile espressione e formule chimiche, io credo che anche da quei miseri avanzi, sorgerà ancora un battito d’amore per te.

Ah io non supponevo che Rob mi amasse cosi! Ora il suo amore aumentava il mio, eppure bisognava curvare il capo alla fatalità.

— Hai sempre le tue violette ed anche vaniglia, se sapevo che eri tu ad attendermi te ne portavo anch’io — ha detto con un piccolo sorriso, guardandomi con infinita dolcezza.

— Lo so, lo so, Rob. Ora andiamo. Stassera è tutta la nostra vita, bisogna goderla quindi, non piangere piú. — Vieni. — Andiamo al Lido. Vuoi? Desidero la solitudine, la notte, il mare… Andiamo, Roberto! Saremo sposi per un’intera notte soltanto…

I nostri piedi affondano nella sabbia mentre le piccole onde di schiuma bianca li baciano con dolcezza. — Lontano è un rombo come di battaglia. L’odore di salsedine ci inebria. — Ah se trascinassi Rob, nei gorghi profondi! Sparire insieme sarebbe pure orribilmente bello! Ci siamo baciati, tenuti stretti, passeggiando quasi sull’acqua per tanto tempo, poi ha cominciato la pioggia ed il vento. — Siamo fuggiti all’albergo, il solo albergo aperto d’inverno…

Ci guardiamo, tremanti di felicità, di tutto dimentichi, soli.., tranquilli, in una camera d’albergo ove ci ritengono sposi!… L’illusione è perfetta, pare il nostro viaggio di nozze!

Rob è smarrito, tace guardandomi con adorazione. — Mi sono seduta sulle sue ginocchia e gli ho messo il braccio destro al collo, ho avvicinato il mio viso al suo e con passione, timore e malizietta gli ho sussurrato colla bocca sulla sua:

— Mi vuoi fare da cameriera? Spogliami, Rob! Sai fare?!

Ridevo; ridevo pianino, decisa alla follia, dopo la quale avrei sposato il vecchio Conte, la carcassa spolpata, tanto per vedere Roberto ed essere al suo livello, nello stesso ceto…

Le belle mani di Rob avevano il tremito delle fogliuzze quando vi passa sopra un soffio impercettibile e le fa fremere… I suoi occhi non abbandonavano i miei, fissandomi con avidità acuta, profonda! Una presa di possesso nei suoi brillanti occhi neri aggrappati ai miei di lazulite. L’abito di merletto nero è tolto. — Rimango in sottoveste di raso violaceo smorto, sul petto poche violette spente e la crocetta brilla tra i seni.

Ci prende un nuovo impeto di baci, siamo saturi di voluttà.., una smania, un parossismo…

La sottoveste cade a terra. Sembra un grande crisantema — entro al quale sto ritta ed immobile. Ecco il candore della mia carne, il mio bel collo, le mie braccia nude. Mi pongo le mani sul capo ridendo:

— Toglimi il busto, Rob!… non toccarmi però… mi fai il solletico! …

Il bel calice bianco passava sul divano… cadendovi affranto.

Ecco la camicia di merletto dalla quale s’intravede tutto il corpo, bianco come le tuberose, tornito, solido ed agile.

Rob, si arresta; è madido di sudore, respira affannosamente.

Ed io decisa al precipizio, insisto ancora, ridendo come un gorgheggio di usignuolo, biricchina ed audace:

— Spogliami dunque Rob!

Egli mi scioglie i nastri dalle spalle. — La camicia crolla in cerchio intorno ai miei piedi come una bella camelia bianca. — Nel contempo ho levato il sostegno di tartaruga e tutti i miei capelli mi hanno fatto un manto che non l’ebbero certo le piú grandi Regine! La mia nudità perfetta è bella, è casta…

— Marina, ho paura di morire! — mormora Roberto agitatissimo… confuso…

— E le scarpine piene di sabbia non me le togli Rob? — dico, ancora pi ú biricchina…

La sua agonia continua ed io senza rendermi ragione del momento grave, rido… felice! Ecco i miei piedini col pollice inanellato e col rubino che guarda scintillante, come un occhio d’un essere sopranaturale venuto a farci compagnia. Io osservo gli occhi di Rob, che sono diventati più cupi, più neri, carichi di desiderio. Mi dànno una profonda scossa, mi pare d’essere dentro ad un bagno elettrico. Come è bello Rob, in maniche di camicia! Vedo in lui qualche cosa del compagno d’adolescenza, del fanciullo bello e perverso, caparbio e virile. Quanto mi piace co-si’! Dal letto, assisto al suo rapido gettito d’indumenti, meno complicato del mio…

— Presto Rob, ho freddo, ho freddo, il letto è freddo, scaldami, vieni Rob… Roberto. — Marina mia! Dunque di felicità non si diventa pazzi? non si muore? Ah chi può mai narrare ciò che si sprigiona d’ebbrezza dal corpo umano, con l’amore, la giovinezza, nel bello, di due anime innamorate? Nessuna parola, nessuna espressione potrebbe mai rendere la felicità sovrumana di certi momenti. — Occorrerebbero parole nuove. Forse colla musica potrò dire ciò che ho provato. Con la mia arpa saprò dire la sublime ebbrezza dell’istante in cui il corpo di Rob si è posato sul mio. Fra noi erano i miei capelli d’oro. Eravamo così blanditi come da ali d’angelo. Qualche cosa oltre noi ci avvolgeva in una carezza lieve, lieve, blanda, viva di sé!… Poi ho creduto che dovessimo divorarci; ho creduto di alzarmi e non avere pili né muscoli né sangue miei: bensì quelli di Roberto che suggevo ed egli i miei che divorava.

— Oh chi mi ti può contendere, quali forze ti potranno togliere da queste mie braccia, da questa mia bocca? Tu non potrai pii vivere, che qui — su questa bianca carne — tutto il mondo è qui — amami, amami, amami! Così gli mormoravo in una semi-incoscienza… Mi sono poi ricordata le parole di Matilde… certe parole misteriose… Ed ho cercato di dare a Rob tutta la felicità che ho potuto. Sapevo, sapevo come! Non ero pii l’ingenua! — L’ho esaltato, reso pazzo! — Più tardi ci ha ripreso l’angoscia dell’avvenire: — Come faremo, come faremo adesso? Dimmi come potremo vivere divisi?! — Mi ami? — chiedevo, abbracciandolo e sfiorando tutta la sua carne con le mie labbra umide. — Mi ami? — Marina! Marina! — Si accendeva, soffriva, la passione superava le sue forze, le nostre forze è ripeteva: — Sei bella, sei bella, sei bella, nessuna donna è bella cosí!

E tu? vediti là nello specchio… ed io t’adoro! Oh la soavità dopo l’ardore, era divina, divina, divinal… Mi aggrappavo ancora stretta a lui come potessi tenerlo li, per sempre, con gli occhi negli occhi… Il giorno ci ha sorpresi, meravigliati. — Come? Già il sole? Un raggio filtrava tra le persiane. — Pareva impossibile che fosse passata un’intera notte! E che notte! Un lampo! … Alzati Rob, va, lasciami sola un momento, va a fumare, a leggere i giornali, ti raggiungo subito caro — cosí gli ho detto con dolce insistenza… Appena sola scoppio in un pianto disperato, seduta sul letto ancora caldo e scomposto per la nostra follia! Poiché è tale, Io so, lo so! Ho pianto con altrettanta foga come nei nostri baci. Sentiva in fondo a me un dolore, come avessi perduto una persona cara… perduta per sempre!

Roberto mi ha sorpresa così ed egli mi ha calmata, rasserenata con l’affettuosità e le parole come che io fossi una bimba ed egli la mamma.

— Questo letto così ridotto.., come un teatro di battaglia, che vergogna, povera me! Come facciamo, Roberto? Che cosa diranno? — chiedo angustiata. E Rob, a ridere: Ma si sa… non diranno niente! Che vuoi farci? Nulla! cara, cara Mignon!

Tutto il resto dopo fu tristezza. L’addio, il viaggio, la realtà!

Mi sono inginocchiata innanzi al ritratto di mia madre: — Mamma, se hai amato, perdona! Perdona! Tanto le ho detto di perdonarmi! — poi ho aperto la sua Filotea ed ho pregato. Come si prega bene quando ci sentiamo infelici! — Ho trovati i ricordi di santa Teresa:

Niente ti turbi
Niente ti sgomenti

Colla pazienza tutto s’acquista.

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